Storia della famiglia Scalfi, ramo di Stenico

 

Oggetto in passato di approfondite ricerche da parte dei validi studiosi del Gruppo SPES di Preore, gli Scalfi, seppure non numerosi come nei secoli scorsi, sono ben radicati ancor oggi in Giudicarie, dove sono ripartiti per la maggior parte tra Preore, Saone e Tione. Va innanzitutto precisato che, presentemente, di questa famiglia esistono altri nuclei, talvolta numerosi, in altre parti d’Italia. Nella provincia di Brescia si contano ben 74 famiglie prevalentemente concentrate nella zona tra il capoluogo ed il Lago di Garda, con punte di 18 presenze a Muscoline, 9 a Gavardo, 8 nella stessa Brescia e 7 a Bedizzole e Villanuova sul Clisi. Nella provincia di Milano ve ne sono 43 distribuite in vari centri, con punte di 20 nella città meneghina, 6 a Sesto S. Giovanni, 4 a Desio. Altre presenze si registrano in varie provincie del nord, ma ci sono anche tre famiglie a Roma, una a Teramo, due a Matera e perfino due a Messina.

Gli Scalfi che oggi vivono in Giudicarie hanno origini bergamasche essendone accertata la provenienza dalla Val di Scalve, una laterale della Valcamonica. Troviamo, per la prima volta, un riferimento alla famiglia in una pergamena depositata all’Archivio di Stato di Milano e datata 14 ottobre 1190 nella quale appare come testimone un Johannes de Scalfo. Successivamente, abbiamo notizia di un Martinus qm Pizini de Scalvo habitator Celaditii plebis Vulsanae che, per sdebitarsi di vari benefici avuti dal priore del Monastero di Campiglio e da altri monaci, il 24 agosto 1452, dona allo stesso monastero un terreno arativo a Celledizzo. Martino del fu Pizino de Scalvo è indicato come abitatore di Celledizzo, pieve di Ossana, in Val di Sole, quindi non era originario del luogo, ma era un forestiero. All’inizio del XVI sec., quella stessa famiglia si sposta in Rendena e, in una pergamena del Comune di Pinzolo, datata 3 novembre 1511, è registrato come teste Stefano del fu Pezino de Scalfo dimorante in Pinzolo. Alcuni decenni più tardi, ritroviamo le tracce degli Scalfi nei registri parrocchiali della Pieve del Bleggio dove, in data 8 ottobre 1568, è annotato l’atto di battesimo di Giustina figlia di Giorgio del magistro Antonio detto “el Scalf” abitante a Larido. A margine del registro vi è un’ambigua annotazione: “Bagolino” alla quale non si può dare un’interpretazione certa se non che questo Antonio Scalf fosse originario da Bagolino, avallata poi da un’altra registrazione dove si apprende che Giorgio ha un altro figlio, al quale viene imposto il nome di Antonio Domenico; qui il padre viene indicato come Giorgio da Bagolino abitante a Larido.

In data 21 giugno 1586, abbiamo poi l’atto di matrimonio contratto nella chiesa di S. Eleuterio allo Spiazzo del Bleggio, l’odierna S. Croce, tra Battista di Giorgio da Scalfo di Bergamo e Maria di Luigi Giacomoni di Balbido. Con ogni probabilità, Giorgio “Scalf” da Bagolino e Giorgio da Scalfo da Bergamo sono della stessa famiglia o addirittura la stessa persona, in questo caso Giorgio, proveniente dalla Val di Scalve, si sarebbe fermato per qualche tempo a Bagolino per poi pervenire al Bleggio.

Quindi appare chiaro che la piccola valle bergamasca, bellissima, ma isolata e di scarsissime risorse, vide la triste emigrazione di molti suoi figli i quali, ricchi solo di tenacia e voglia di sopravvivere, presero la via di contrade migliori. Il “maistro Zordo”, mastro Giorgio, era uno di questi e, probabilmente dopo comprensibili vicissitudini e spostamenti, nella seconda metà del XVI° secolo, pervenne a Cavrasto dove trovò le condizioni favorevoli per stabilirvisi. La qualifica di maistro, mastro, maestro, lo indica come un artigiano finito, in grado di esercitare un’attività corporativa che, nel nostro caso, era quella di faber ferrarius, fabbro ferraio. Era questo un mestiere che permetteva buone prospettive di lavoro, qualora si trovassero le condizioni ambientali favorevoli per impiantare una fucina, che doveva sorgere lungo un corso d’acqua con portata costante e tale da far girare la ruota del maglio. Il fabbro eseguiva lavori di carpenteria metallica per costruzioni, produceva attrezzi da campagna e da casa, armi da punta e da taglio, chiodi e staffe, chiavi e serrature, nonché tutta una serie di ferramenti per gli usi più svariati. Ma non era tutto qui, era anche maniscalco e ferrava cavalli, muli, asini e buoi, con i vari tipi di ferri indicati per i vari impieghi cui gli animali erano destinati. Mastro Giorgio è registrato come proveniente da “Scalfo da Bergamo” e, dal momento che un abitante della Val di Scalve era detto scalf, d’ora in avanti i componenti della famiglia verranno indicati come Scalfi.

Da Cavrasto, dove alcuni rimasero fino all’800, gli Scalfi si spostarono a Preore dove, in pochi decenni, prolificarono in modo tale che la famiglia divenne molto numerosa e ramificata. Allora, certo più di oggi, v’era la civilissima usanza di onorare i predecessori imponendo i nomi di questi ai propri figli, ingenerando, per la verità, parecchia confusione dal momento che raramente si trovano nomi diversi da Giorgio, Diodato (Deodato) e Giovanni Battista. In prevalenza erano fabbri, arte che si tramandava di padre in figlio, ed avevano varie fucine sui torrenti della zona. Spesso i fratelli si spartivano le attrezzature e dividevano forge e maglio, usandoli a rotazione, perché ognuno lavorava per conto proprio dividendo spese e consumi in proporzione.

Quando, in zona, i fabbri cominciarono ad essere troppi, si cercarono nuovi bacini d’utenza, così all’inizio del 1678 Giorgio Scalfi si spostò a Stenico prendendo in affitto la fucina che fu di Paolo Girardi, posta nella Valle del Cugol, sotto al Ponte del Pilastro. In questo momento ebbe inizio il ramo di Stenico della famiglia, perché Giorgio, ormai in età, lasciò presto il posto al figlio primogenito Diodato che portava il nome del nonno. Da qui in avanti, la famiglia di Diodato ed i suoi discendenti abitarono sempre in Stenico lavorando nella fucina del Cugol, in seguito acquistata, fino alla Prima Guerra Mondiale e precisamente fino agli inizi del 1917 quando Guglielmo Scalfi morì, proprio davanti ad essa, per il riacutizzarsi improvviso del male per il quale era stato operato in Austria dove si trovava a combattere nelle file dell’esercito austriaco.

Come si diceva, Giorgio Scalfi affittò la fucina del Cugol per 13 Fiorini Ragnesi annui da pagarsi, sette in denaro e gli altri sei in brascato, con l’aggiunta di dover prestare gratuitamente l’opera di ferraro per la casa dei proprietari Girardi ed il loro mulino.

Dall’esame dei documenti reperiti in gran parte presso l’Archivio di Stato di Trento, Diodato rimase alla fucina del Cugol almeno fino al 1685, ma con ogni probabilità si fermò a Stenico ancora qualche anno dal momento che in quel regolare, comprò anche della terra. Poi, nel 1692, acquistò dal fratello Giovanni Battista la parte di questo della casa paterna in Preore ed è evidente che vi si stabilì, perché negli anni successivi cercò di mettere a frutto i suoi guadagni con varie compravendite di terreni nel tentativo di dare più consistenza al suo patrimonio. Acquistò anche la vicinìa, cioè la cittadinanza di Preore e questo per godere degli stessi diritti dei residenti, diritti negati ai forestieri che erano semplicemente ospitati nel paese ed esclusi dalla gestione e dai frutti della cosa pubblica, infatti, in un documento rogato l’11 aprile 1706 dal notaio di Stenico Giorgio Aliprando Zorzi, Diodato Scalfi viene indicato come vicino di Preore e partecipante perciò alla pubblica regola, l’assemblea che governava gli affari e gli interessi della Comunità. In quel periodo, nei pressi della località Molina, sotto al mulino del Bonetti, costruì una fucina che venne denominata “la fusina dei Scalfi” e, assieme ai suoi figli, vi lavorò finché le forze lo sostennero.

Diodato morì prima del 1720 ed il figlio primogenito Giorgio entrò in possesso di una delle case più prestigiose del paese, la casa Berthelia, appartenuta al defunto notaio Rocco Bertelli e pervenuta, per disposizione testamentaria di quest’ultimo, alla chiesa di S. Maria Maddalena di Preore. L’edificio, che disponeva di un bell’orto e di un broletto, era ubicato sulla strada imperiale di fronte alla stessa chiesa e costò, in totale, la ragguardevole cifra di 1230 troni.

I figli di Diodato, vale a dire Giorgio e Giovanni Battista, continuarono a lavorare nella fucina di famiglia, ma i due fratelli non dovettero andare molto d’accordo se, nel maggio del 1728, stipularono un contratto che regolamentava fra loro, severamente e puntigliosamente, l’uso della fucina e delle sue attrezzature nella misura di due terzi per Giorgio ed un terzo per Giovanni Battista. Ognuno lavorava per sé, e, forgia, maglio, mola ed ogni altro utensile, erano usati due giorni da Giorgio e un giorno dal fratello, mentre, sempre in queste proporzioni, era calcolato il consumo di tutto quanto era necessario per il lavoro.

Nell’autunno del 1742 Giorgio Scalfi, si ammalò e morì dopo aver dettato le sue ultime volontà. Dal testamento, apprendiamo che la sua situazione economica non era certo delle peggiori, poiché dispose che il suo funerale, il settimo, trigesimo ed anniversario, si svolgessero in forma solenne con l’intervento di ben dieci sacerdoti. Inoltre, volle che si celebrassero ben nove mesi di messe, più una messa l’anno per 50 anni e che si distribuisse, ad ogni fuoco fumante della villa di Preore, una congrua carità di pane e di sale secondo l’uso del tempo. Ai commissari testamentari, infine, ordinò che fossero liquidati 150 Fiorini del Reno alla figlia sposata Antonia, 230 alla figlia nubile Domenica, e 100 al figlio Giovanni Battista perché potesse terminare gli studi intrapresi, con l’obbligo per tutti gli eredi di mantenere, con caritatevole e premurosa comprensione, vita natural durante, l’altra figlia Lucia, sorda e cieca dalla nascita.

Tutti i figli di Giorgio Scalfi vissero in comunione nella casa paterna ancora per un paio d’anni, lavorando nella fucina di famiglia assieme ai cugini, figli di Giovanni Battista morto nel frattempo, adoperandosi per ingrandirla e migliorarne il funzionamento. Comprarono un fondo comunale soprastante per avere maggior disponibilità di spazio per il carbonile ed il travaglio della ferratura degli animali e stipularono un contratto con la proprietaria del mulino Bonetti, situato poco più a monte, per prelevare da questo l’acqua sovrabbondante allo scopo di costruire e far funzionare la “bot da lòra”, che era un capace recipiente il quale, sfruttando la caduta dell’acqua, produceva una corrente d’aria che, opportunamente incanalata, veniva portata nelle forge per ravvivare le braci.

Verso la fine del 1744, comprendendo che l’attività non bastava per tutti, si divisero l’eredità e si separarono: Diodato, come primogenito, mantenne la fucina di famiglia, Michele si trasferì a Fiavè affittando la fucina Sibioli a Carbien, Giovanni Battista iniziò l’attività di notaio e Giovanni si trasferì a Stenico prendendo in affitto la fucina del Cugol, già condotta dal nonno e dal bisnonno. Il contratto di locazione è datato 8 ottobre 1749, ma Giovanni aveva iniziato l’attività già dal 1° maggio e si era sistemato in paese affittando alcuni locali nella casa degli eredi del fu Giacomo Betta. Purtroppo la moglie Elisabetta gli morì nella primavera del 1752 e dei due figli avuti da lei non sappiamo nulla. Giovanni, che in paese era soprannominato “Datto”, con chiaro riferimento al nonno ed alla frequente ricorrenza del nome Diodato nella famiglia, si risposò ancora alla fine dello stesso anno con Margherita Venturini da Coltura e con questa avrà ben 11 figli.

Il lavoro non mancava e il Datto era un ottimo artigiano, oltre che una brava persona, tanto che non tardò a guadagnarsi la stima dei paesani. La locazione della fucina aveva una durata di 12 anni, ma già nel 1755 fu nelle condizioni di acquistarla. Naturalmente dovette impegnarsi a fondo per trovare la somma necessaria che ammontava a ben 600 Fiorini Ragnesi da 4,5 troni l’uno. Vendette al fratello Diodato la sua parte di casa paterna a Preore, vari fondi in quelle pertinenze e la casa di proprietà della seconda moglie a Coltura. Così, riuscì a pagare la fucina e, nel 1757, anche a comprare casa a Stenico. Questa dimora, modesta ed angusta, che, nonostante il numero dei membri della famiglia, gli Scalfi abiteranno per 35 anni, era situata ai “Benetti”, coperta di paglia, con cucina, una sola camera, la “caneva” di sotto ed un piccolo broletto con vari alberi da frutto.

Ma, per fortuna, la maestria e la laboriosità del fabbro, unitamente ad alcune vantaggiose compravendite di fondi a Preore ed a Stenico seppero dare i loro frutti e così, nel 1770, Giovanni riuscì a diventare vicino di Stenico accollandosi tanti debiti della Comunità per l’ammontare di 300 Ragnesi. In questo modo la famiglia poté godere degli stessi benefici e privilegi riservati agli stenicensi, soprattutto del diritto di sfruttare le cospicue risorse boschive per tagliare la legna da trasformare nel carbone necessario al funzionamento della fucina. A          questo scopo si convenne che Giovanni potesse provvedersi della legna da carbone necessaria per la propria attività tagliandola in Val d’Algone sul versante a sera del territorio comunale, oppure sul versante a mattina, ma solo principiando dal Tovo e Ponte del Limaldos in dentro sotto al prato di Francesco Corradi. Giovanni e Margherita invecchiarono serenamente, quattro figlie erano già sposate, Anna Maria e Caterina a Stenico, Domenica a Dasindo e Margherita a Ragoli, mentre con loro rimasero i due figli, Giuseppe e l’ultimogenito Giovanni Andrea, che continuarono l’opera del padre nella fucina del Cugol.

Nel 1792, gli Scalfi permutarono la loro casa ai Benetti con una più grande sulla piazza di Visnà al civ. 18 e Giuseppe si sposò formando famiglia separata, mentre Giovanni Andrea rimase con l’anziano padre accudendolo amorevolmente tanto da guadagnarsi la riconoscenza di questo in due codicilli al suo testamento. Infatti nel 1794, Giovanni assegnò al figlio Giuseppe una parte di casa per abitarvi con la sua famiglia e definì la parte a lui spettante della fucina del Cugol, precisandola nel primo fucinale accanto alla porta d’entrata. Allo stesso tempo riconobbe i meriti del figlio più giovane, disponendo che, alla sua morte, quest’ultimo ricevesse 100 Ragnesi in più del fratello, unitamente a tutti gli emolumenti guadagnati con la sua arte di fabbro nella fucina di famiglia.

Il Datto morì nei primi mesi del 1795 lasciando alcuni debiti che i due figli saldarono alienando un fondo a Tez. Subito dopo, litigarono per spartizione dell’eredità paterna, o meglio, Giuseppe non fu molto d’accordo sulle preferenze riconosciute al fratello minore, ma l’indole più bonaria di Giovanni Andrea, che d’ora in poi chiameremo semplicemente Giovanni, come in effetti era conosciuto in paese, permise di appianare la controversia.

A questo punto, Giuseppe, probabilmente perché meno dotato del fratello, almeno come spirito d’iniziativa, si defila dalla nostra storia, mentre il giovane Giovanni, che nel 1798 sposa Bona Armanini da Premione, pian piano, riesce ad entrare in possesso dei beni del fratello che contrae invece parecchi debiti. Agli inizi dell’800, Giovanni Scalfi divenne unico proprietario della casa di Visnà e la sua attività gli dovette rendere bene perché nel 1805 diventò unico proprietario anche della fucina al Cugol che, negli anni successivi, ingrandì ed ammodernò. Anzi, nel 1822 tentò l’acquisto all’asta della fucina Ferrari nei pressi del Ponte delle Arche ,affare che non andò in porto. Nel 1825 morì la sorella Antonia che per molti anni accudì il reverendo don Giuseppe Corradi svolgendo per questi anche le funzioni di economa; per disposizione testamentaria lo designò suo unico erede lasciandogli un buon gruzzolo di 800 fiorini plateali che equivalevano a 640 fiorini di Vienna, crediti, mobili e un fondo di 200 passi a Paton valutato 100 fiorini. Giovanni e Bona ebbero tre figli Giovanni Deodato, il primogenito, morto in tenera età, Giacomo che nel 1826 sposerà Margherita Castagnari e Giorgio che per qualche anno abitò a Seo e nel 1828 sposerà Teresa Simonini. Tutta la famiglia abitava nella stessa casa, genitori e figli con le rispettive famiglie.

L’operosità del fabbro e dei suoi due figli diede buoni frutti, ne abbiamo la prova da diversi documenti di acquisto di beni immobili tra i quali la casa di Girolamo Lappi, suo confinante, che gli permise di avere più spazio per la famiglia. Giovanni approfittò delle difficoltà finanziarie dei Lappi per incamerare la loro casa e così gli Scalfi occuparono l’edificio che fa angolo tra la strada e la piazza, sul lato a monte della stessa. In questo periodo ottenne dalla Comunità il diritto di tenere in fucina due fucinali con facoltà di aggiungerne un terzo qualora in famiglia ci fosse qualcuno che si volesse avviare all’arte del fabbro e questo perché aumentando i fucinali necessariamente aumentava la quantità di legna da carbone da tagliare in Algone. Qualche anno più tardi Giovanni acquista per 220 fiorini più 30 fiorini annui il diritto di usufruire per 100 anni delle decime che il conte Leopoldo Thun tiene in Stenico.

Gli Scalfi vivono insieme e lavorano in buona armonia mettendo convenientemente a frutto i loro risparmi tanto che Giovanni acquisisce diversi crediti, un fondo “alle Marogne” e nel 1844 per 460 fiorini ab. compera da don Carlo Lutterini, al tempo curato a Lundo, un bel fondo con casa ad uso fienile in loc. “alla Maléa” tra il Rio Barbison e il Rio Cugol.

Giovanni Scalfi muore il 13 ottobre 1845 a 74 anni, età considerevole per quei tempi e per la sua professione, non certo agevole, lasciando i propri beni ai due figli in parti uguali. Giacomo e Giorgio lavorano nella fucina, evidentemente con buon profitto dal momento che tra il 1847 e il 1849 incamerano diversi crediti per lavori eseguiti e attrezzature vendute; nel settembre del 1849 muore anche la madre e i due fratelli ereditano il patrimonio di famiglia in forma indivisa, vale a dire la casa di famiglia, la fucina, e alcuni fondi prativi ed arativi.

 

Subito dopo, i due fratelli acquistano dai fratelli Festi di Fiavè una fucina con orti e due prati nelle adiacenze, posta sulla riva della Duina sotto Cavrasto in località “Fucina”. Si tratta di un affare non di poco conto che costerà ben 400 f. VV; l’edificio è composto, a piano terra, dalla fucina munita del fucinale con maglio, di quattro incudini, una mola e tutti gli attrezzi dell’arte di fabbro, con annesso il volto del carbonile; al piano superiore si trova la cucina, la sala, la stuffa (soggiorno) e tre stanze da letto; inoltre, sullo stesso piano vi è la stalla e il portico con altri locali annessi. Intorno vi sono piazzali e la travaglia per ferrare gli animali. Confina a mattina con la strada pubblica, mezzogiorno il torrente Duina, sera e settentrione la strada. La fucina viene affittata a Francesco Planck, loro cognato, e a Francesco Rigatti di Cavrasto.

Giorgio Scalfi, che per anni ha ricoperto le mansioni di capo comune, muore il 4 marzo 1854, a soli 49 anni, lasciando eredi la moglie Teresa Simonini e le figlie ancora in minore età, Dorotea, Carolina, Antonia e Cattarina. Subito dopo Giacomo compera dalla cognata Teresa e dalle nipoti la loro metà della fucina del Cugol e di Cavrasto e qualche anno dopo nel 1859 compera anche la casa adiacente di proprietà di Carlo Sisti. Ora la casa degli Scalfi è grande e spaziosa, soprattutto la parte di Giacomo, mente l’adiacente parte del defunto fratello Giorgio viene divisa tra le sorelle Cattarina nubile, Carolina sposata con Carlo Sicheri, Antonia sposata con Luigi Martello e Dorotea sposata con Amadio Parisi di Premione.

Ma Giacomo non è in salute e non può più lavorare e, anche se i tre figli maschi portano avanti la fucina, contrae alcuni debiti, ma il 28 febbraio 1860 muore per un’emorragia cerebrale, anche lui in età non certo avanzata. Nel suo testamento redatto il 21 febbraio 1860 appaiono descritti tutti i suoi beni, ma anche parecchi debiti e tra gli altri la casa a Visnà del valore di f. 1436, la fucina al Cugol del valore di f. 1200 e la fucina a Cavrasto del valore di f. 517. Complessivamente la sostanza lasciata da Giacomo consisteva in f. 1042.44 di beni mobili, f. 1714.81 di crediti e f. 3682.80 di beni stabili, per un totale attivo di f. 6440.05. Da questi si tolgono f. 4321.83 di debiti, per lasciare un totale attivo di f. 2118.22 VV.

Secondo le disposizioni testamentarie alla moglie Margherita e le figlie minori Amalia e Teresa, finché nubili, usufruiscono dell’alloggio in casa Scalfi, mentre a Bona, Lucia, Amalia e Teresa viene lasciata la legittima. Tutto il resto viene lasciato indiviso in parti uguali a Antonio, Giacomo e Giovanni.

L’anno successivo i tre fratelli liquidano le spettanze della madre e delle sorelle rimanendo proprietari assoluti dei beni di famiglia, quindi, acquistano la parte di casa della cugina Antonia Scalfi fu Giorgio in Martello.

Nel giugno dell’anno successivo muore anche la madre Margherita che lascia in eredità alcuni fondi, uno alla Guarda di 208 pertiche, uno alla Cagalina di 470 pertiche e uno al Canton o Bis di 164 pertiche subito venduto a Domenico Fedrizzi.

Ora i tre fratelli possono godere completamente della sostanza lasciata dai genitori e nel settembre del 1864 passano alla divisione. Ad Antonio tocca la fucina di Cavrasto con tutto ciò che vi è attorno, compreso un terzo del carbone esistente presso la fucina del Cugol, così, il fratello maggiore si appresta a lasciare il paese non appena i locatari della sua fucina al Bleggio avranno liberato la proprietà. La mancanza di documenti, danneggiati o distrutti nell’alluvione del 1966, ci impedisce di sapere esattamente cosa farà Antonio dopo il 1864, ma da documenti successivi si può dedurre che inizialmente, per qualche anno, lavorò a Cavrasto in società col cognato Francesco Planck, e successivamente, il 2 febbraio 1872, vendette tutto al socio  trasferendosi a Calavino dove nel 1868 nascerà il sesto figlio Annibale Gregorio e in seguito la sua famiglia metterà radici.

Giacomo e Giovanni, ai quali rimane indiviso tutto il resto dei beni di famiglia, attivi e passivi, continuano a lavorare assieme nella fucina del Cugol; nel 1867 acquistano la parte di casa Scalfi della cugina Caterina sposata Datovo e nel giugno del 1869 si appropriano anche della parte di casa posseduta dalla cugina Carolina sposata Sicheri.

Però, dopo il 1871, anno in cui Giovanni estingue una grossa ipoteca, gli Scalfi incominciano ad avere problemi, il lavoro non rende più come prima e, complici forse problemi di salute di qualche familiare, incominciano a contrarre debiti iniziando con un grosso mutuo di 600 fiorini stipulato con il giudice di Stenico Camillo Ravelli da Presson in Val di Sole.  

Nel 1880 Giacomo e Giovanni, incapaci di risollevarsi dalla loro crisi, iniziano a vendere parti di proprietà per poter vivere in attesa di tempi migliori che purtroppo non arriveranno mai. Nel settembre di quell’anno, infatti, rivendono ai Sisti la parte di casa verso il cortile a sera che era stata di loro proprietà. Purtroppo due anni dopo nel maggio del 1882, Giacomo, che aveva vissuto tutta la vita da scapolo, muore a soli 45 anni per una gastroenterite lasciando erede il fratello che si accolla tutti i debiti ipotecando quasi tutta la rimanente sostanza e vendendo al cognato Domenico fu Giacomo Canepele la parte di casa al civ. 22.

Alla fine del 1883 arriva un altro grave colpo per gli Scalfi che all’epoca avevano cinque figli, quattro femmine e un maschio, il primogenito Guglielmo. Infatti Bernardino Depetris in conseguenza della morosità di Giovanni fa pignorare la casa, la fucina e i fondi alla Guarda e alla Cagalina.

A questo punto, nella nostra storia, se si eccettua il fatto che nel 1887 Guglielmo viene esonerato dal servizio militare perché unico figlio maschio e di gracile costituzione, vi è un altro buco dovuto all’impossibilità di consultare i libri di archiviazione danneggiati e posti in restauro, ma la situazione della famiglia non cambia perché saltando al 1906 troviamo che la Cassa di Risparmio di Rovereto pone all’asta forzata la casa, la fucina e i fondi alla Casola e alla Guarda. Questo provvedimento viene però rinunciato dall’istituto finanziario all’inizio di febbraio del 1907, segno che, in qualche modo, Giovanni è riuscito a rimediare alla situazione, tanto che, nel 1908 i beni degli Scalfi risultano liberi da ipoteche. Bisogna, peraltro, dire che Guglielmo, nell’aprile del 1905, assieme a molti altri conterranei era partito per il Nord America in cerca di fortuna, lasciando a casa la moglie incinta e due figlie in tenera età. Poco o nulla sappiamo del periodo americano di Guglielmo che sbarcò ad Ellis Island con 27 dollari in tasca e, secondo quanto previsto dalle leggi locali sull’immigrazione, era atteso da una persona che garantiva per lui. Questa persona era il compaesano Gregorio Sicheri che gli assicurò alloggio e lavoro a Reynoldsville in Pennsylvania. Gregorio era il padre di Giacomo che sposerà Guglielmina la primogenita di Guglielmo e che con il fratello Costante fu in Pennsylvania con il padre a lavorare nelle miniere di carbone. Guglielmo Scalfi rimase in Nordamerica non meno di un quinquennio dal momento che risulta presente a Stenico agli inizi del 1911; lavoro e sacrifici gli consentirono di accantonare una discreta somma che inviò a casa per tacitare i creditori. Così, il 10 aprile 1908 il padre, ricevendo 2000 corone, gli intesta la fucina libera da ipoteche con annessi e connessi, riservandosene l’uso vita sua natural durante. Evidentemente la somma rimessa dal Nordamerica serve per liberare la casa dalle ipoteche, ma adesso Giovanni non riesce a guadagnare quel tanto da mantenere la famiglia. Non sappiamo con esattezza quando Guglielmo rientra in paese, possiamo solo supporre che questo sia avvenuto agli inizi del 1911 dato che la figlia Giustina nasce nel dicembre di quell’anno. Però le cose non sono per nulla rosee, il lavoro alla fucina langue ed allora si ricorre a nuovi debiti, tanto che nel settembre 1911 il vecchio Giovanni è costretto a vendere al cognato Carlo Datovo una nuova porzione della sua casa al civ. 22; gli Scalfi ora devono ritirarsi in una ristretta porzione della loro vecchia casa al civ. 17.

Bene o male si riesce a tirare avanti, ma lo scoppio delle ostilità a seguito del tragico fatto di Sarajevo, nell’estate del 1914 porta il reclutamento di massa e il “padre della patria” l’imperatore Franz Josef  I°, che attendeva da anni questo momento, invia migliaia di trentini considerati p.u. (Politische Unverlässliche, politicamente inaffidabili) sul fronte russo a combattere e a morire lontano da casa per una guerra che certamente non era la loro. Guglielmo ha quasi cinquant’anni e per questo non è coinvolto nella prima ondata di reclutamenti, ma l’anno successivo è arruolato come Landsturm Arbeiter e il 10 ottobre 1915 è inviato al Bauleitung di Nago, giusto otto giorni prima della nascita di Erminio. A casa lascia la moglie Erminia con sei figli.

Purtroppo però la sua salute lascia a desiderare e il duro lavoro nell’allestimento delle strutture belliche di difesa alle quali è destinato il suo reparto, il KuK Geniedirektion Bauleitung Riva, non gli giova certo. Da diverso tempo soffre di dolori intestinali e già il 5 novembre viene inviato al KuK Reserve-Spital di Innsbruck dove gli viene diagnosticato un “carcinoma recti”, un cancro all’intestino ed inviato subito alla clinica chirurgica.

Il 19 novembre 1915 Guglielmo viene sottoposto ad un difficile intervento chirurgico con asportazione di parte del colon discendente e del retto. Viene così applicata una fistola con funzione di ano artificiale. Nonostante una forte debilitazione per complicazioni polmonari, il decorso postoperatorio si svolge favorevolmente e al 30 novembre, certo molto prematuramente a causa dello stato di guerra, il chirurgo prof. von Haberer lo dimette e, in quelle comprensibili condizioni, viene spedito a casa per la convalescenza. Possiamo solo immaginare la sofferenza di quel viaggio in treno da solo e, soprattutto, il lungo tragitto da Trento a Stenico che il poveretto compie a piedi portando con se anche le sue povere cose personali. Quando arriva al Ponte dei Servi, dopo più di trenta chilometri di cammino, stremato si accascia a terra e aspetta il passaggio di qualche anima buona. Così viene caricato su un carro di un amico in transito che lo porta finalmente a casa. Quel Natale in famiglia certamente gli giova e, nel bene e nel male, trascorre a casa la primavera del 1916. All’inizio dell’estate viene richiamato al servizio e raggiunge il suo battaglione a Nago, ma il suo evidente stato di salute obbliga il comando della KUK Geniedirektion di Riva a inviarlo a Salisburgo dove ha sede la KuK Brigade-Superarbitrierungskommission, il collegio di medici che dovranno sottoporlo ad esami per decidere se le sue condizioni gli permettano di continuare il servizio.

A Salisburgo Guglielmo arriva il 9 luglio col treno dei feriti e viene ricoverato all’Ospedale San Giovanni dove con documento redatto il 10 agosto 1916 gli viene riconosciuta l’invalidità totale a qualsiasi lavoro militare. Rientra quindi a casa e il 10 ottobre si ripresenta al suo battaglione per ricevere il congedo. Il successivo 22 dicembre il KuK Militärkommando di Innsbruck gli concede una pensione di invalidità di 72 corone, assieme ad una personale indennità di 288 corone. Il provvedimento viene inviato al comando di Riva in data 5 gennaio 1917, ma probabilmente Guglielmo non farà in tempo nemmeno a riceverne notizia, infatti pochi giorni dopo, l’11 gennaio, sentendosi un po’ meglio decide di fare una passeggiata fino alla sua fucina. Aperta la porta e data un’occhiata all’interno decide di mettere in funzione la ruota per controllare il funzionamento, di questa e del maglio, ma lo sforzo per alzare la saracinesca del condotto dell’acqua gli è fatale e la sua tribolata esistenza termina lì.

Erminia rimane sola con sei figli, il suocero Giovanni e la mamma Teresa Sebastiani Corradi, per sua fortuna riceve una valida mano dalle figlie più grandi, Teresa ha 19 anni, Guglielmina 16 e Letizia 12, ma soldi non ce ne sono e tirare avanti è molto duro. Non rimane che cedere anche l’ultima parte di casa Scalfi ipotecando gradualmente anche la fucina e i pochi terreni rimasti.

Il vecchio Giovanni ha quasi 80 anni e per l’indigenza della famiglia viene affidato alle cure dell’Ospizio di Santa Croce dove muore nel gennaio del 1919; nel frattempo Erminia è costretta a ricorrere all’aiuto dei parenti Todeschini Mauzi che le concedono in affitto alcuni locali nella casa di loro proprietà (in seguito acquistata da Michele Lappi).